di Melania Depasquale
Trent’anni fa la mafia chiudeva i conti con il simbolo della lotta a Cosa Nostra: Giovanni Falcone. È Giovanni Brusca, l’uomo piazzato sulla collinetta che domina Capaci, a premere il telecomando che scatenerà l’inferno sull’autostrada. La carica di esplosivo era pronta sotto un tunnel, ed era stata preparata dall’artificiere Pietro Rampulla. L’auto con a bordo il magistrato viene distrutta dall’esplosione. Con il giudice muoiono, anche i tre agenti di scorta: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. La moglie di Falcone, Francesca Morvillo, anche lei magistrato, morirà poco dopo in ospedale. L’autista Giuseppe Costanza sta sul sedile posteriore e si salva per miracolo.
Giovanni Falcone è l’uomo che, con l’apporto di decine di collaboratori di giustizia, a partire da Tommaso Buscetta, ha ricostruito la struttura verticistica della mafia, ha individuato esecutori e mandanti di gran parte delle mattanze compiute a Palermo in quegli anni, e ha allargato le maglie delle relazioni tra Cosa Nostra e i poteri forti. Con Paolo Borsellino, e gli altri componenti del pool di Antonino Caponnetto, ha istruito il maxiprocesso e mandato a giudizio più di 474 imputati.
In quegli anni il pool antimafia, mette a fuoco un nuovo metodo investigativo che fa leva sulla ricerca dei soldi e dei patrimoni della mafia, il terreno nel quale si formano gerarchie e si saldano le alleanze che danno vita a nuovi interessi. Il potere di Cosa Nostra si insinua nel tessuto produttivo dell’economia, innescando anche un attacco allo Stato che spesso assume una dimensione terroristica. Sulla stregua di questo sistema oscuro, la mafia di quegli anni, uccide magistrati, giornalisti, investigatori, Piersanti Mattarella, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e il segretario regionale del Pci Pio La Torre, egli fu promotore della legge sul riconoscimento del reato di associazione mafiosa, che introdurrà il sequestro e la confisca dei beni. La legge verrà approvata solo dopo la sua morte. Il maxiprocesso è la risposta più forte che decreta la sconfitta della linea sanguinaria e spietata dei vertici di Cosa Nostra, ma apre anche la strada ad una nuova stagione di stragi. La prima è quella che porta alla morte dell’On. Salvo Lima: l’uomo scelto da Andreotti in Sicilia. Secondo la magistratura, era uno dei referenti politici della mafia, che venne eliminato perché non sarebbe stato in grado di manipolare l’esito del maxiprocesso. L’evento condizionò irreparabilmente l’elezione di Giulio Andreotti a presidente della Repubblica.
Quando viene ideato e organizzato l’attentato, Falcone è direttore degli affari penali del ministero della Giustizia: un posto chiave, dal quale vengono ideate le linee dei più importanti dei provvedimenti antimafia. Falcone è anche l’ideatore della DNA: la Procura antimafia nella quale non arriverà mai. È fermato dal clima ostile che lo circonda sin da quando ha cominciato a occuparsi di mafia. In giro si dice che sia stato proprio lui a organizzare una messa in scena funzionale alla sua carriera.
Le maldicenze e le ostilità lo accompagneranno durante l’esperienza in Procura, la quale viene divisa con Paolo Borsellino. Alla morte di Falcone, il magistrato e amico, dirà che sente che sta per arrivare anche la sua fine. Una fatale previsione: 57 giorni dopo Falcone, verrà assassinato dalla mafia anche Borsellino.